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Marcello Gandini, pensieri a ruota libera

Siamo andati a trovare il genio del design a casa sua a Torino, per parlare di Miura, iPhone e di quello che pensa veramente dei remake moderni dei suoi lavori più celebri.

Testo di Jason Barlow - Foto di Dennis Noten
Pubblicato il: 08 set 2021
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Arriva un momento nella vita in cui è inevitabile provare un po’ di nostalgia. Ma non se ti chiami Marcello Gandini. Gandini se ne sta seduto nell’atrio della sua splendida casa, un’ex abbazia che ha convertito personalmente, sulle colline torinesi. Oggi ha 83 anni. È un uomo elegante, attivo, anche se ultimamente ha bisogno di un bastone. La sua mente è acuta, le sue opinioni non convenzionali. È una leggenda del design automobilistico.

In generale le auto che una volta piacevano oggi non vengono più apprezzate, o lo sono molto meno”, nota Gandini. “La Countach, nel bene e nel male, è ancora godibile dopo 50 anni. La Miura invece mi urta un po’”. La Miura è considerata l’auto più bella mai costruita. Iniziata da Giorgetto Giugiaro prima che lasciasse Bertone nel 1965, è stata completata da Gandini (anche se non si sono mai placate le polemiche sull’esatta natura del suo contributo). È difficile capire che cosa possa urtare in un’auto così. Gandini però la liquida come un’auto fatta per piacere alle masse. “Non è più di mio gusto. Quando ho disegnato la Miura, per me e per Bertone era importante fare qualcosa di nuovo che fosse accettabile da tutti. La Miura era aggressiva, ma aveva un qualcosa di morbido, era facile da assimilare perché era nel solco della tradizione delle grandi sportive degli anni Cinquanta e Sessanta. Io ero all’inizio della mia carriera quindi ero molto prudente. Ma dopo di lei ho deciso di fare qualcosa di totalmente diverso...”.

Secondo Outliers, il libro di Malcolm Gladwell, la genialità è il risultato del background familiare, dell’istruzione, dell’opportunità e del duro lavoro. Nessuno dubita dell’estrema intelligenza dei geni, ma Bill Gates o Steve Jobs si sono anche trovati nel posto giusto al momento giusto. I Beatles invece hanno dovuto fare 10 mila ore di prove prima di firmare il loro primo contratto discografico. Certo, avevano dalla loro tre compositori di prima categoria, ma hanno dovuto sudarsi il successo. Gandini e Giugiaro sono nati a distanza di due settimane uno dall’altro nell’agosto 1938 e la loro carriera ha preso il volo a Torino nell’epoca del miracolo economico postbellico. Anche se entrambi amano farsi chiamare “maestro” non si considerano tanto artisti quando risolutori di problemi. Entrambi però hanno radici artistiche. Gandini, figlio di un direttore di orchestra, ha frequentato il liceo classico a Torino.

Mi sono rifiutato di suonare il piano perché mi hanno obbligato a farlo quando tutti i miei amici erano fuori a giocare”, ricorda. “Ma ho ancora qui il piano di mio padre”. La sua prima volta nel mondo del design automobilistico è stata quando ha rielaborato la Osca 1500 di un amico per una gara in salita. “Ho usato il fil di ferro”, dice. “Sono nato per fare il progettista di oggetti meccanici. Ma all’epoca era impossibile vivere di questo. Mi piacevano le auto nel senso che mi piaceva farle andare forte, non per la loro forma. Se vuoi costruire un oggetto devi prima sapere a che cosa serve. Altrimenti come puoi progettarlo? Non si può separare la progettazione dalla meccanica. E per quanto riguardalo stile, devi creare emozioni: senza le emozioni le auto sono inutili. Quando sei giovane la cosa più importante è lavorare per poter mangiare. Io dovevo tirare su i soldi per mangiare ogni giorno disegnando auto e quindi in questo senso ho avuti successo.".

Gandini non ama rimuginare troppo sul passato. I suoi primi schizzi li ha fatti sul pavimento della sua camera, dice, e confessa che non sapeva bene che cosa stesse facendo. Quando Bertone lo ha notato Gandini aveva già lavorato in carrozzerie importanti come la Touring e la Ellena. Dice che Giugiaro aveva minacciato di andarsene se Bertone lo avesse assunto, ma poi il suo grande rivale se ne è andato comunque. Quando è entrato alla Bertone, Gandini non aveva quasi il tempo di respirare. Dormiva pochissimo. Il design della Miura è stato completato a mezzanotte della vigilia di Natale del 1965 e il prototipo costruito in due mesi, pronto per il Salone di Ginevra. “Ci abbiamo messo 24 giorni a produrre il primo modello”, ricorda. Gandini poi ha lavorato altre 66 ore a un altro progetto prima di tirare il fiato e poter chiudere occhio. Per la Marzal del 1967, un modello fantascientifico, lui e il suo team hanno lavorato giorno e notte per completare il primo esemplare, per poi vederlo distrutto da un addetto alle pulizie che gli ha lanciato addosso la scopa disgustato. Poi è arrivata la Countach, quella che ha cambiato tutto. “Volevamo prendere quanto più possibile le distanze da tutto quello che era successo prima”, spiega Gandini. “Era importante non ripetere nulla, fare qualcosa di completamente diverso. Per me questo è sempre stato un punto fondamentale. Una Lamborghini dovrebbe essere riconoscibilmente una Lamborghini, ma soprattutto non dovrebbe essere come nessun’altra Lamborghini. Non voglio sembrare pomposo ma la Countach è un capolavoro perché non è stata concepita per piacere alla gente, ma per avere una sua anima”. Il nome, spiega, viene da uno degli uomini che lavoravano con lui. “Era un omone, molto forte, con due mani enormi. Parlava quasi solo in dialetto piemontese e usava spesso quel termine. In realtà significa ‘contagio’, ma lui lo usava per indicare ammirazione o meraviglia. Ho deciso di chiamarla così, a quel punto abbiamo tagliato la targhetta da fissare alla show car e gliela abbiamo appiccicata sopra. Nessuno ha visto l’auto finché non è arrivata a Ginevra”.

Gli chiedo se considera la Countach come l’apoteosi di un’idea che ha iniziato a sviluppare con la Alfa Romeo Carabo nel 1968 e la Stratos Zero nel 1970. La Carabo è stata la prima a montare le portiere a forbice mentre la Stratos ha introdotto la linea a cuneo che rifiutava audacemente le solite forme sensuali delle sportive, soprattutto italiane, dei due decenni precedenti. A che cosa stava pensando? “Beh, diciamo che fanno parte della stessa famiglia. Era un’evoluzione delle superfici insolita all’epoca. Stavo cercando di creare qualcosa che avesse senso. Non so fino a che punto fosse coinvolta la logica. Ci sono volte che ottieni un risultato e volte in cui non ci riesci. Non metto in dubbio questa parte del processo, ma certe volte mi domando perché ho disegnato auto brutte. Ci sono stati periodi in cui, sfortunatamente, mi sono lasciato influenzare e ho fatto cose pessime, cose che non erano all’altezza. Ho sempre preferito avere poco tempo per fare le cose, perché in questo modo ho meno tempo per ascoltare il parere di altre persone e sono costretto a mettermi in un angolo e a lavorare sodo”. Gli leggo una sua citazione dove dice che preferisce “l’archivio della memoria che cancella facilmente i termini meno lusinghieri”. Sorride per la prima volta. “Sinceramente preferisco pensare al futuro o al presente. Mi sono sempre rifiutato di vivere nel passato. Avrei fatto molta più fatica nella vita se non avessi pensato a quello che volevo accadesse il giorno dopo”. Gli chiedo che cosa pensa dell’Apple iPhone. “Ho tutta l’ammirazione possibile per Steve Jobs che l’ha inventato. Ovviamente se altri non avessero già fatto altre cose, dalla teoria dei quanti in poi, il cellulare non esisterebbe nemmeno e Jobs non avrebbe fatto nulla... Ma in ogni caso ha fatto un enorme passo avanti”.

Marcello Gandini non è facile da impressionare. La sua casa di Torino è favolosa e lui è orgoglioso anche di quella che ha progettato e costruito in Corsica. Nel suo curriculum c’è anche un elicottero, un camion e gli interni di un night clubdi Torino. Ma questo designer di alcune tra le auto più grandiose e influenti della storia non ha un garage pieno di supercar. Non è il suo stile. L’ultima volta che Gandini è stato a Sant’Agata è arrivato con una vecchia Mitsubishi Colt. Nonostante il successo, rimane un ingegnere di idee, un uomo che risolve problemi. E di problemi da risolvere ce ne sono tanti. “C’è stata un’enorme evoluzione nel settore automotive. Ma che cosa abbiamo ottenuto veramente? L’uomo è stato sostituito dai robot, ma il modo di costruire auto è rimasto più o meno identico. Io volevo ridurre le dimensioni delle fabbriche invece di sostituire semplicemente gli uomini con i robot. Volevo ridurre le dimensioni e i costi della fabbrica stessa e anche ridurre drasticamente il numero di componenti e i fogli di metallo necessari per costruire un’auto. Ho brevettato alcune di queste idee e le ho vendute alla Renault negli anni Ottanta e a un’altra Casa in India. Ma nessuno ha la forza o la voglia di cambiare il concetto attuale di fabbrica”.

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Vorrei chiedergli la sua opinione sulla nostalgia di futuri perduti e sulla persistente presenza di oggetti del passato. Ma Gandini ha un altro meeting questa volta con il direttore del design Lamborghini, Mitja Borkert, che vuole mostrare a Gandini un modello della “nuova” Countach, una versione per celebrare il 50° anniversario del marchio. Il passato ci perseguita. Borkert, che ha portato un modellino della LP500 e una biografia di Gandini da farsi autografare, è l’autore dell’omaggio definitivo a Gandini: “Per anni ho studiato l’essenza della Countach” dice, “perché la sua silhouette influenza tutte le Lamborghini. Tempo fa scherzando con i progettisti dicevo che tra la concept car e la prima auto di produzione hai aggiuntole prese d’aria Naca. Oggi ci troviamo di fronte allo stesso problema perché il vento non è cambiato...”. Poi il maestro sorride al suo allievo. “Ottimo lavoro”, dice semplicemente.